Combattimento tra la Fortezza e la Fortuna infelice
circa 1549
50 x 46 cm
olio su tela
Anche tenendo conto della diversità di dimensioni tra le due opere, gli occhi che si posano su questa piccola tela non possono evitare un confronto, alla ricerca di somiglianze e distanze, con l'altro combattimento lottesco in forma di dipinto, con San Michele caccia Lucifero. Successivo a quello di alcuni anni, il "quadretto" testimonia una delle ultime incursioni del pittore veneziano nel cielo delle divinità pagane. Da un lato, soccombente, la dea Fortuna (Tyche in greco), raffigurata secondo una delle varianti più diffuse in età rinascimentale, cioè come giovane donna nuda in equilibrio forzatamente precario su di una sfera e sospinta da una vela, dunque soggetta alla mutevole direzione del vento. Dall'altro, trionfante, Fortezza, la virtù i cui attributi sono la fermezza, simboleggiata dalla colonna, e il coraggio, richiamato dalle teste di leone che le stringono i calzari.
Vero è che la vela spezzata ricorda il bastone luciferino. Così come le carni nude di Fortuna quelle del principe degli angeli ribelli. Ma qui la nuvolaglia è minaccia diffusa, tenebra che ricopre tutto il ciclo, non solo una parte di esso. E se nel combattimento tra angeli i due neppure si sfiorano, Fortezza invece è pronta, con la colonna nelle mani, a sferrare il colpo decisivo sulla dea dopo averle già sottomesso il corpo con le proprie gambe.
Nessuna conciliazione, nessun gesto pietoso possibile, nessuna mano tesa dunque, in contesto pagano. Vincere o soccombere. E tuttavia l'attimo fermato da Lotto è quello che precede l'abbattimento definitivo, il colpo di grazia che solo la fermezza (la colonna) può sferrare. È troppo bella, la Fortuna, troppo attraente la sua volubilità, per credere (sperare) davvero in una sconfitta definitiva.